Ungheria, XXXIII. Biennale (Venezia, 1966)

MHIIS BOBOS Come in occasione della Biennale precedente, anche questa voltáé una mostra personale che forma il centro della nostra esposizione, solo che non si tratta più, come allora, dell’opus di un pittore, ma di uno scul­tore. E’, questa, una novità per noi: il padiglione ungherese infatti — per quanto abbia sempre cercato di proporzionare pittura e scultura presentando un nu­mero eguale di opere o, almeno, sculture se ridotte in numero, notevoli nelle dimensioni — era orientato nel suo aspetto generale più verso la pittura che non verso le arti plastiche. E ciò sopratutto perchè le opere dei nostri scultori presentate alla mostra ungherese in quest’ultimo decennio si ripartiscono per le più in misura eguale nelledue categorie della plastica monu­mentale e di quella intima, per cui la presentazione della loro produzione non poteva mai essere veramen­te completa — ed era il caso specialmente dei maestri Medgyessy, Mikus, Kerényi e Somogyi — in quanto non è possibile schierare, nel padiglione della Bien­nale, i monumenti grandiosi o le sculture minori delle fontane che ornano le piazze del nostro Paese, nè ciò corrisponderebbe alle finalità generali di questa ras­segna internazionale. Quest’anno verranno presentate al pubblico le opere scelte di un nostro scultore, Miklós Borsos, le cui creazioni difficilmente si potrebbero costringere nelle m<ij categorie della scultura monumentale o intima, e tanto meno in quelle dei letti di Procuste ormai tradizionali della scultura concreta o astratta, o nelle scatole provviste di etichette indicanti il funzionale o il teoretico. Il maestro compie quest’anno la sessantina, ma, eterno sperimentatore, egli si nutre veramente del nettare dell’eter­na giovinezza offerta da Ebe: non si arresta mai nel suo cammino e, come gli eroi antichi, s’impegna continua­­mente nella lotta rinnovata con le più varie materie, con le correnti più diverse e nella soluzione dei compiti più svariati. Scrivendo di lui è ovvio che da sotto i tasti della macchina da scrivere moderna saltino fuori i paragoni classici della mitologia antica: nella sua opera, infatti, si fondono in armonia eccezionale la cultura mediterranea e il genio del popolo ungherese e s’incarnano in una stretta unità le larghe correnti di energie dell’Europa e le tradizioni della Pannónia scaturite dalle profondità. Egli disegna, scolpisce, modella e taglia — materig e stru­mento gli obbediscono, sia che si tratti di granito o di basalto, di marmo bianco italiano o di quello rosso unghe­rese, di verde antico o di bronzo, di rame o d’argento — dai ritratti che analizzano la natura fino al rilievo che abbraccia e rivela il cosmo, egli domina il linguaggio particolare dei vari generi. Al centro della sua scultura sta l’uomo: cosi quando egli formula le sue idee nelle medeglie d’un brio scintil­lante, nelle quali ama riassumere gli insegnamenti attuali derivanti dall’opera dei classici della cultura mondiale attraverso i secoli, dei maestri dell’arte, della musica, della letteratura; e cosi l’elemento umano rimane centrale anche quando egli condensa le sue idee in forme estremamente concise, rivolgendosi con simpatia ai simboli che in tempi remotissimi, nella concezione di antichissimi miti di millenni fa, esspressero in forme visibili e tangibili le forze elementari della natura: il fuoco, l’acqua, il cielo, il mare, la terra. Non è affatto una mera coincidenza il fatto che egli crei le sue opere sulla riva del mare ungherese, l’immenso lago Balaton, nella penisola di Tihany dove natura primitiva e paesaggio civile si fondono, dove i nostri poeti, scrittori, pittori e scultori ricavano nuove forze dalla purezza della natura per tener viva la schietta umanità nella vita, in un momento quando questo nostro mondo diventa sempre più complesso e quando dobbiamo fare sempre di più, per un numero sempre maggiore di uomini. La strada che Miklós Borsos ha percorso per giungere all’attuale libero esercizio della sua arte e all’ adempimento grave e nobile della propria missione artistica che si era imposto, non è stata semplice. Esordi negli anni venti, lui ventenne, come incisore, orefice e pittore. Interruppe presto gli studi all’Accademia d’Arte di Budapest per ìmvkihiùT EQjfèjEMe UV cercare maestri più lontani, scegliendoli non tanto tra i contemporanei quanto tra i predecessori, i modelli classici. Percorse a piedi le regioni più mediterranee, sopratutto l’Italia e la riviera della Francia meridio­nale. Un contributo indicativo che lumeggia la sua formazione artistica autodidattica: nel suo soggi­orno fiorentino, ricercando le orme dei grandi maestri ancora giovani del Cinquecento, passò lunghe ore nella Cappella del Carmine per disegnare le figure di Masaccio, il cui volume crea tutt’intorno effetti spazia­li, e in particolare le teste, di una plasticità monumentale. Borsos raggiunge negli anni quarante la sua maturità di scultore: non per caso egli comincia a comparire alle mostre insieme con il maestro Jenő Barcsay, il no­stro grande pittore presentato qui alla Biennale prece­dente: come Barcsay nella pittura, cosi Borsos nella scultura portano il loro contributo, di una forza espres­siva piena di vita poetica e di potenza lirica, al lin­guaggio particolare dell’ arte ungherese. Dopo la seconda guerra mondiale — pur avendo a lot­tare contro vari ostacoli — egli ottenne pieno riconosci­mento nel suo Paese. Vinse nel 1953 il premio Munká­csy e nel 1957 il premio Kossuth, segno del più alto riconoscimento pubblico per un artista. In questi ultimi 10 anni ha compiuto numerosi viaggi di studio: in Grecia ha potuto dilettarsi del contatto diretto con la GYULA FELEDI

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